Perdonare o non perdonare.

Ovvero: È giusto porgere l’altra guancia? E perdonare è sempre necessario e/o possibile o esistono casi in cui è possibile non perdonare? 

Molti ritengono che la capacità di saper perdonare sia fondamentale per una armoniosa esistenza in una società; riuscire a mettere la cosiddetta “pietra sopra” e chiudere quindi una questione rendendosi disponibili al perdono permette di continuare i rapporti sociali, altrimenti compromessi.

L’importanza del perdono è sottolineata non solo dalla religione, ma anche da diversi programmi terapeutici, come quello dei “dodici passi” attuato nell’ambito delle dipendenze. In tali situazioni la filosofia del perdono poggia sull’idea che esso sia necessario nei confronti degli altri, poiché essi –come del resto ognuno di noi- hanno fatto tutto ciò che era loro possibile e l’offesa o l’insulto subito, pertanto, è solo marginalmente sotto la loro responsabilità. Secondo il principio secondo cui errare sarebbe umano, quindi, il perdono sarebbe cosa dovuta.

Sia in ambito spirituale, sia in quello terapeutico il perdono sembra quindi essere l’unica via percorribile per migliorarsi e, in certi casi, anche per guarire.

In alcuni casi, tuttavia, perdonare risulta impossibile, se non addirittura dannoso, soprattutto in alcuni ambiti specifici di cura.

È anzitutto fondamentale soffermarsi su cosa realmente significhi accordare il perdono a qualcuno, poiché ciò non si può limitare alla mera espressione verbale, ma necessita di una profonda presa di consapevolezza dell’accaduto e il raggiungimento di una sorta di pace interiore che possa permettere l’accantonamento di ogni profondo astio e/o dissapore. In sintesi si potrebbe dire che “tra il dire e il fare vi è di mezzo il mare”: dire “ti perdono” può essere cioè molto diverso dal riuscire a perdonare realmente una persona.Prescindendo da questa (benché una condizione essenziale che in un certo senso precede l’atto del perdono) che necessiterebbe di un più dilungato approfondimento (e questa potrebbe non essere la sede adatta), appare importante soffermarsi su cosa implichi il perdonare qualcuno.

In sintesi e probabilmente scadendo nella banalità, si potrebbe affermare che perdonare qualcuno –per un torto subito, ad esempio- riporti la relazione con questa persona ad uno stato antecedente il torto stesso: una sorta di “come se” niente fosse accaduto. Tale “reset” –per usare un termine più tecnico anche se non di diretta pertinenza con l’ambito psicologico- riporta le due persone ad una situazione neutrale, identica a quella presente prima dell’oggetto del contenzioso. Questa riconquistata circostanza riapre quindi tutte le possibilità all’evoluzione del rapporto, ivi compresa la possibilità di un nuovo futuro torto.

Vero è che questa potrebbe essere definita come una visione pessimistica della realtà e dell’indole dell’essere umano, tuttavia vi sono indubbiamente situazioni in cui il perdono potrebbe costituire non la possibilità di una riappacificazione, ma terreno fertile per ulteriori insulti. In questo senso il perdono –che lascerebbe quindi facilmente presupporre ulteriori sofferenze- potrebbe non essere la strada migliore da intraprendere, almeno qualora non si fosse masochisti. Alcuni “assetti personologici”, infatti, mostrano più di altri la tendenza al perdono in situazioni anche potenzialmente rischiose, in quelle situazioni cioè in cui una ulteriore sofferenza/ ingiuria/ offesa è altamente probabile, creando situazioni fotocopia, che molto ricordano la coazione a ripetere. In questi casi il perdono può essere deleterio (in ambito terapeutico) non solo per il “perdonante”, ma anche per il “perdonato”, poiché il valore che quest’ultimo attribuirebbe al torto che ha commesso (data la facilità di perdono incontrata) sarà irrisorio (“tanto mi perdonerà senza grandi problemi”).

Il meccanismo del perdono è –come accennato- molto articolato e difficilmente standardizzabile. In molti casi è l’unico modo che si trova per ridurre la rabbia che si prova, emozione questa che spesso si ritiene disfunzionale, “sbagliata” o comunque difficile da gestire.

La rabbia, invece, ha un notevole valore adattivo: è proprio lei che ci permette di reagire e che motiva la reazione delle vittime. La rabbia permette di uscire dalla vergogna che la vittima ha provato, rendendo quindi possibile la difesa.

Alcune ricerche hanno evidenziato, ad esempio, che donne che hanno subito una violenza sessuale e che si sono concesse la libertà di esprimere la loro rabbia, sono riuscite a metabolizzare meglio il trauma, rispetto invece alle donne –parimenti abusate- che invece hanno sempre cercato di inibirla. Ciò dimostrerebbe quindi che sarebbe proprio la rabbia a motivare le persone definibili come “vittime” ad affrontare la propria sofferenza, il proprio dolore.Anche negli studi su minori abusati (primariamente abusi incestuosi) la rabbia giocherebbe un ruolo fondamentale: sarebbe tale emozione che permetterebbe alle vittime di prendere le distanze dal proprio abusatore. In questi casi, poi, la rabbia aiuterebbe nel combattere i sentimenti di vergogna e di colpa, sentimenti sempre presenti nelle vittime di abusi sessuali che si vedono –anche solo parzialmente- causa della propria vittimizzazione.

Quindi la rabbia avrebbe –almeno inizialmente- un ruolo adattivo e funzionale alla sopravvivenza fisica e psicologica della vittima e, in tale periodo, il perdono risulta pressoché impossibile. Solo in un secondo momento, potremmo dire quando la rabbia ha esaurito la sua carica, la vittima potrà entrare in una fase di pre-contemplazione (e poi reale contemplazione) della possibilità di concedere il perdono. Solo allora si potrà creare la possibilità per la vittima di perdonare chi ha commesso il torto, e solo allora tale perdono potrà essere reale e sincero e non limitato ad una semplice –quanto “politicamente corretta”- affermazione del tipo: “ti perdono!”.