Descrizione
“Un ora sola ti vorrei” è un film di Alina Marazzi.
Visto per voi.
La regista ha scelto di raccontare la storia della madre, in modo da condurre lo spettatore nel delicato terreno della memoria, attraverso la lettura di diari, di lettere, di cartelle cliniche della casa di cura dove Liseli, la madre della regista, trascorse lunghi periodi prima di morire suicida. Il video appartiene ad una categoria di film difficilmente classificabile, perché utilizza e rielabora materiale di repertorio. Intreccia il lato pubblico con quello privato.
La valutazione di PdB.
Attraverso questi testi, le immagini, le fotografie del nonno, Alina Marazzi scopre sua madre e ne ricostruisce il volto e la celebra, ricordandola. Questo è un po’ quello che spesso acccade durante il percorso con il paziente che decide di intraprendere una psicoterapia in seguito ad un’esperienza di lutto. “Ricordare, ripetere e rielaborare”, per citare il noto scritto di Freud, rende possibile dipingere e ricostruire il volto e la vita della persona che è mancata, davanti agli occhi del terapeuta.
Visione psicologica.
Il film di Alina Marazzi è un film sulla nostalgia come sentimento comune, essenziale e necessario, come superamento di una perdita. E’ proprio questo sentimento che permette di uscire dalla dimensione di lutto fredda, inaccessibile, quasi impenetrabile per come spesso viene portata nei primi colloqui anche dai pazienti. Nel film un ruolo decisivo viene assunto dalle parole del diario, che lottano con le immagini, le smentiscono, le spogliano e le svuotano. Questo di fatto è quello che avviene anche in terapia, dove la persona che è venuta a mancare viene “ricostruita” inizialmente in maniera idealizzata. Lo spazio terapeutico permette di entrare in contatto con l’interezza della persona “reale”, integrando ambivalenze, fragilità e contrasti.
“Un’ora sola ti vorrei”diventa cinema per la forma nostalgica che assume, per il desiderio verso un’essenza, per la volontà di toccare ed essere toccati da una figura fantasmatica. E’ proprio quello che sembra accadere nel percorso terapeutico, dove il paziente talvolta costruisce il ricordo quasi nel desiderio di far “toccare” al terapeuta la figura della persona perduta, per farla rivivere ed esserne a propria volta “toccati”.
Come nel film, anche in terapia col passare del tempo, si avverte una serenità che emerge come stato d’animo successivo alla commozione e al dolore. Ciò che il terapeuta cerca di fare è aiutare la persona ad entrare in contatto con la propria storia e i propri ricordi, i propri stati d’animo per far sì che ciò diventi qualcosa di nuovo, non un sostituto, ma un’integrazione, un’elaborazione attraverso un rimaneggiamento del proprio mondo interno. In questo senso quello che accade nel film è un qualcosa di analogo, tanto è vero in un’intervista ad Alina Marazzi, la regista stessa racconta di considerare il suo film auto-curativo e ritiene che sia stato un processo di trasformazione incredibile, che ha reso quel periodo molto ricco anche di sogni. Proprio per questo, sostiene di essersi riappropriata di una parte di sé, che ora sente propria.
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