Ad ogni paziente la sua etichetta. Giusto o sbagliato?

La cosiddetta “etichetta diagnostica”, ossia l’inclusione di un paziente all’interno di una categoria diagnostica (più semplicemente definibile come “diagnosi”) può essere un’arma a doppio taglio. Posto che essa è utile al clinico per circoscrivere l’area dei disturbi di un paziente, è importante invece valutarne l’efficacia –e in alcuni casi la sensatezza- per il paziente.

È indubbio il fatto che, soprattutto dopo lunghi o intensi periodi di sofferenza, per un paziente possa già costituire un primo sollievo riuscire a dare un nome (diagnosi) alla propria problematica: riuscire a identificare con ragionevole certezza e precisione l’area disfunzionale, permette infatti –in un certo senso- di delimitare il campo non solo di “disturbo”, ma conseguentemente anche di intervento.

Diagnosticare un Disturbo d’Ansia specifico – e quindi dare un’etichetta –  può infatti permettere di dare un nome alla propria sofferenza, di vedere in un certo senso il nemico.

Tale etichetta –tuttavia- se lasciata fine a sé stessa, può risultare dannosa. Ovvero attribuire semplicemente la diagnosi – benché identifichi per così dire il “nemico”- non dice nulla al paziente delle caratteristiche di tale nemico. Quindi: punto e a capo; si conosce il nome del nemico, ma non se ne conoscono né i punti di forza, né quelli di debolezza, quindi non si riesce a comprendere come affrontare la battaglia.

È importante quindi che la comunicazione della diagnosi (l’attribuzione dell’etichetta) sia accompagnata da una dettagliata spiegazione di cosa tale definizione comporti, ossia la delineazione di un “profilo” di questo nemico.

Riuscire a dare un nome al proprio disagio quindi può essere auspicabile, ma vi sono diversi casi in cui gli aspetti negativi possono prevalere su quelli positivi. Capita infatti spesso che l’etichetta diagnostica venga vissuta come una sorta di giudizio onnicomprensivo, una valutazione della globalità della persona. Così, l’”avere un disturbo d’ansia” diviene “essere persone ansiose”, sempre e comunque, eliminando –in un certo senso- tutte quelle numerose volte in cui la persona si è sentita rilassata, proattiva e “positiva”. Etichettare quindi una persona con una diagnosi può eliminare tutte quelle sfumature che possono esistere e che invece non rientrano nelle caratteristiche del disturbo: definire un amico “narcisista” può far perdere la visione dei suoi aspetti invece benevoli, generosi e caritatevoli che –magari- hanno contribuito alla creazione dell’amicizia con lui.

Altro rischio connesso all’etichettatura delle persone è la tendenza a “far tornare i conti”, ossia la ricerca pressoché continua di elementi che portino ad ulteriori conferme dell’etichetta-diagnosi, ovviamente sempre tralasciando quelle che potrebbero essere caratteristiche positive non rientranti nella diagnosi. Strettamente connesso a ciò vi è l’ormai noto fenomeno della “profezia che si autoadempie”: continuare a definirsi con un’etichetta diagnostica più facilmente può portare a mantenere comportamenti e atteggiamenti che siano in grado di confermare tale diagnosi. Affermare di “essere depressi” aumenta la possibilità di rimanere in casa, evitando i contatti sociali, quindi fomentando la sintomatologia depressiva (il ritiro sociale è uno dei sintomi della depressione).

Nell’ambito delle etichette diagnostiche acquista poi un ruolo di primaria importanza “chi” emette la diagnosi. Se, come sopra affermato, si tratta di un clinico, molto probabilmente egli sarà in grado di spiegare al paziente in cosa consista l’etichetta “emessa”, fornendo quindi quel profilo del “nemico”. Sempre più spesso –tuttavia- si assiste ad un fenomeno che potremmo definire come “auto-attribuzione di etichette diagnostiche”, ossia alla diffusissima manifestazione dell’autodiagnosi. Questa è con tutta probabilità la situazione più pericolosa. Tornando all’esempio dell’amico narcisista di cui sopra, la cui diagnosi non sia stata formulata da un clinico ma –come avviene- raffazzonata tramite internet, si tenderà ad attribuire ad ogni comportamento di costui una valenza “narcisistica”. Ciò significa che ogni comportamento che tale amico metterà in atto, sarà visto come mosso dalla necessità di un tornaconto personale, secondo la visione “narcisista=egoista”. Un favore nei nostri confronti sarà quindi interpretato come la manifestazione di una sua superiorità rispetto a noi e non sarà possibile inquadrarlo come un mero gesto cortese e altruistico, fatto che porta ad una visione decisamente peggiorativa. In questo senso l’etichetta diagnostica “raffazzonata” porta alla creazione di illusioni che vengono rinforzate da ulteriori illusioni (far quadrare i conti, facendo rientrare ogni comportamento/ azione all’interno della categoria diagnostica scelta).

Se già in questi termini la situazione può apparire allarmante, esiste tuttavia un passo successivo ancora più preoccupante se non drammatico, ossia quello che riguarda l’assunzione di farmaci.

Ciò è particolarmente frequente nell’ambito dei disturbi dell’umore, soprattutto nella depressione.

In questo caso il sentirsi abbattuti, giù di tono, magari in seguito ad un evento spiacevole, facilmente porta ad identificare il proprio stato d’animo come “depresso”. Anche qui una breve ricerca su internet conferma gli iniziali sospetti e leggere della presenza di altri sintomi porta ad una più approfondita disamina di sé stessi, che si conclude con l’inclusione di ulteriori sintomi cui non si aveva pensato prima (forse perché non esistevano nemmeno e la loro comparsa è frutto di suggestione). Complice poi qualche medico poco scrupoloso, facilmente si giunge alla prescrizione di farmaci e il gioco è fatto: un’etichetta inesistente ma auto-attribuita, diviene realtà poiché valorizzata da una prescrizione farmacologica. Ovviamente, in assenza di uno stato depressivo vero e proprio, il farmaco avrà un effetto quasi nullo, mentre saranno presenti –con tutta probabilità- gli effetti collaterali, e la sospensione del farmaco spesso induce veri e propri stati depressivi. Un circolo vizioso in cui il paziente (adesso lo è a tutti gli effetti – ecco la profezia che si autoadempie!) è praticamente intrappolato.

Di qui quindi l’importanza di una diagnosi psicologica eseguita da uno specialista, e soprattutto spiegata nel dettaglio. Solo così è possibile identificare il trattamento più efficace e risolvere la problematica.

In conclusione, i nomi delle cose sono importanti perché ne esprimono le caratteristiche e i significati e il loro utilizzo può essere utile oppure dannoso; è importante –in ambito psicodiagnostico- calibrare bene le parole e, dove il significato non risulti chiaro, approfondirlo con chi di dovere.