Psicofarmaci (6) – Effetti Iatrogeni
Gli effetti iatrogeni sono le complicanze, gli effetti collaterali e i danni causati da un trattamento.
Tali effetti indesiderati sono inevitabili e involontari, e ogni metodo terapeutico deve essere intrapreso con la consapevolezza che i potenziali benefici saranno superiori agli effetti negativi di tipo iatrogeno. Nello specifico, in questo paragrafo ci riferiremo alla eventuale presenza di effetti negativi provocati dalla psicofarmacoterapia sull’organismo (in particolare nel caso di somministrazione prolungata di molecole psicotrope), evenienza che si verifica frequentemente nella pratica clinica e nel trattamento di molte forme di malessere psicologico.
Come tutte le sostanze gli psicofarmaci possono provocare reazioni allergiche, possibili in soggetti predisposti; inoltre alcune molecole psicotrope hanno un effetto teratogeno sul feto, ovvero se assunte in gravidanza possono provocare uno sviluppo anomalo del feto, con il rischio di malformazioni e difetti congeniti alla nascita; il periodo più critico per gli effetti teratogeni di un farmaco è compreso tra la terza e l’ottava settimana di gestazione. Fra le molecole con possibili rischi di effetti teratogeni sul feto e rischi per l’allattamento vanno citati le fenotiazine, gli antidepressivi triciclici e IMAO, gli antiepilettici, i sali di litio, le benzodiazepine; in generale tuttavia l’utilizzo di psicofarmaci andrebbe sempre evitato durante il primo trimestre di gravidanza o in caso di allattamento al seno.
L’obiettivo costante della ricerca in psicofarmacologia negli ultimi 60 anni è stato l’identificazione di molecole il cui meccanismo d’azione sia specifico per certe manifestazioni di malessere psicologico, senza altri effetti sull’attività globale del sistema nervoso: tuttavia fino ad ora non è stato possibile trovare una sostanza che agisse esclusivamente su un sintomo o su un vissuto di sofferenza senza altri effetti sul sistema nervoso. Infatti, nonostante ogni composto provochi effetti specifici sul sistema nervoso, che variano in base al dosaggio, alle proprietà farmacodinamiche e ai sistemi di neurotrasmettitori su cui agiscono, comunque tutti sono dovuti all’inibizione o all’attivazione della trasmissione neuronale in determinate aree del sistema nervoso: sembra che tali cambiamenti nei livelli dei neurotrasmettitori a lungo termine conducano a modifiche strutturali delle cellule nervose. Ad esempio, l’assunzione di un farmaco SSRI a lungo termine ha l’effetto di inibire il riassorbimento della serotonina da parte delle cellule nervose, così che si verifica un innalzamento dei tassi di serotonina; il sistema nervoso automaticamente riduce il rilascio quantitativo di serotonina dalle terminazioni nervose e riduce il numero di recettori che possono ricevere la serotonina. Allo stesso modo, quando la somministrazione di un neurolettico a lungo termine riduce la reattività nel sistema dopaminergico, il sistema nervoso reagisce con una iperattività dello stesso sistema incrementando il numero e la sensitività dei recettori della dopamina. In altre parole, l’assunzione a lungo termine di sostanze psicoattive (alcol, droghe, psicofarmaci) aumenta la probabilità che lo specifico sistema del neurotrasmettitore su cui agisce la sostanza si desensibilizzi e non mantenga più autonomamente i livelli biochimici relativi al proprio equilibrio funzionale. Questi cambiamenti sono reversibili? In altre parole, con la sospensione del farmaco i livelli biochimici dei neurotrasmettitori tornano alla condizione originaria? Inoltre bisogna chiedersi se la somministrazione a lungo termine non comporti effetti iatrogeni su altri apparati e sistemi dell’organismo.
Cinquant’anni di letteratura clinica sui principali disturbi psichiatrici (Disturbi dell’Umore, d’Ansia e Psicotici) suggeriscono il rischio che l’utilizzo di alcuni psicofarmaci aumenti la probabilità di cronicizzare un malessere psicologico a lungo termine. Inoltre, emerge che determinati trattamenti psicofarmacologici possano slatentizzare, ovvero favorire l’espressione di forme di malessere più gravi e invalidanti, il che probabilmente rende ragione almeno in parte dell’aumento del tasso di invalidità mentale (si vedano gli articoli Perché spesso è difficile rivolgersi allo psicologo e La sofferenza psicologica è una malattia?). Un esempio per tutti è il caso dell’aumento vertiginoso di diagnosi di disturbo bipolare nei bambini e negli adolescenti americani in corrispondenza all’aumento di prescrizioni di psicofarmaci stimolanti (antipsicotici atipici) e antidepressivi (SSRI) per curare la Depressione e l’ADHD (Sindrome da Deficit di Attenzione e da Iperattività). Prima della somministrazione di tali molecole, non si erano mai riscontrati sintomi di disturbo bipolare nei bambini prima dell’adolescenza; improvvisamente, con l’inizio dei trattamenti psicofarmacologici dei bambini iperattivi e depressi, è giunto all’attenzione clinica un numero impressionante di soggetti con sintomi di Mania (aumento di 40 volte del numero di diagnosi negli ultimi 10 anni). Il problema è che la terapia farmacologica assunta da questi ragazzi non si è rivelata efficace nel curare la loro sofferenza psicologica, a dispetto del’evidenza dei rischi di problemi fisici e di declino cognitivo associati all’utilizzo cronico di tali molecole (si parla di oltre un milione di ragazzi negli USA). Appare evidente come la promozione mediatica della sicurezza, efficacia e necessità di queste molecole sia totalmente incoerente con l’aumento di casi di sofferenza psicologica tragicamente testimoniata dalla letteratura psichiatrica (Whitaker, 2010).
La letteratura dimostra inoltre la frequenza di effetti collaterali neurologici nell’utilizzo di neurolettici a lungo termine, al punto che paradossalmente diventa difficile distinguere i sintomi psicotici dovuti al malessere psicologico da quelli dovuti agli effetti collaterali dei farmaci. L’assunzione di neurolettici a lungo termine è responsabile di effetti tossici tardivi e irreversibili, come ad esempio determinati sintomi neurologici extrapiramidali (discinesia tardiva, parkinsonismo iatrogeno). In effetti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala la necessità di non somministrare questa classe di farmaci per un periodo superiore ad alcune settimane, anche se purtroppo migliaia di persone ne fanno utilizzo cronico per anni.
Anche nel caso dei sali di litio ricorre l’importante avvertenza di non protrarre la terapia a lungo termine, a causa della tossicità di questa molecola sulle funzioni renali, endocrinologiche e cardiologiche, al punto che durante tutto il trattamento è necessario effettuare periodici controlli sui suddetti apparati. Oltre agli effetti collaterali imponenti e alla scarsa maneggevolezza, l’uso prolungato di antidepressivi IMAO pone il rischio di esordio di episodi maniacali e stati ipomaniacali protratti; disfunzioni sessuali (anorgasmia, riduzione della libido), aumento ponderale e difficoltà cognitive (memoria, attenzione, concentrazione) sono comuni nei trattamenti a lungo termine con antidepressivi triciclici, SSRI e SNRI. Tuttavia, bisogna considerare che esistono pochissimi studi che abbiano valutato le conseguenze dell’assunzione di questi composti oltre i 2 anni di trattamento antidepressivo (Perugi, Romano, Tusini, 2007): non è ancora certo se gli antidepressivi possono continuare a funzionare nella prevenzione di recidive di malessere psicologico per più di 1 anno di terapia. Inoltre, diverse ricerche hanno paventato l’ipotesi di un rischio di gravi effetti iatrogeni neurologici e fisici dovuti all’utilizzo prolungato di antidepressivi, a causa di una compromissione nel metabolismo della serotonina a lungo termine (Breggin, 1997, 2008; Glenmullen, 2005).
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