Psicofarmaci (7) – Efficacia clinica nel ridurre la sofferenza psicologica.

Efficacia Clinica nel ridurre la sofferenza psicologica.

La prospettiva psichiatrica si basa sull’assunto che il disagio psicologico nasca da uno squilibrio chimico nelle cellule cerebrali, nonostante la maggior parte delle manifestazioni di malessere psicologico sia caratterizzata da aspetti appunto psicologici: se si ristabilisce l’equilibrio chimico, dovrebbe sparire la sofferenza. Il fatto è che la letteratura scientifica ha già ampiamente documentato che non si può affermare che i vissuti di sofferenza emotiva siano dovuti a tassi alti o bassi di neurotrasmettitori, ma solo che i sintomi di alcuni dei cosiddetti disturbi mentali sono associati, non causati, a squilibri nei livelli di determinati neurotrasmettitori in specifiche aree cerebrali: non si sa nemmeno se certi tassi dei neurotrasmettitori causino il malessere o il malessere causi una modifica nei tassi dei neurotrasmettitori. Quello che si sa è che certi farmaci che alterano specificamente i livelli di particolari neurotrasmettitori sono efficaci nel contenere e attenuare varie forme di sofferenza psicologica, e che determinati vissuti di sofferenza psicologica hanno un substrato biologico e fisiologico.

 Il fatto che uno psicofarmaco modifichi i meccanismi di rilascio e gli equilibri biochimici dei neurotrasmettitori non significa che abbia “sistemato” uno squilibrio biochimico di base nel sistema nervoso della persona (Murphy et al., 1998; Dubovsky et al., 2003; Lacasse & Leo, 2005). Il suo effetto è modificare l’espressione, l’intensità e la qualità di determinate espressioni emotive, il che spiega perché possa tra le altre cose provocare sollievo e contenimento di determinati vissuti emotivi o “sintomi” (ansia, angoscia, euforia, depressione, deliri, allucinazioni, ecc.). Tuttavia, proprio come nel caso di altre sostanze psicoattive (alcol, caffè, tabacco, cannabis, cocaina, ecc.), il fatto che tali molecole diano una sensazione di benessere non è legato al fatto che “correggano” un difetto nel sistema nervoso, bensì all’effetto dell’intossicazione di tali composti, cioè del fatto che in quanto sostanze psicoattive provocano una sindrome (Breggin, 1997). Ovvero, tanto per fare un esempio, il fatto che la morfina tolga il dolore non equivale al fatto che il dolore sia causato da una carenza di morfina: il meccanismo d’azione degli psicofarmaci quindi non agisce sulle cause originarie o sui fattori di mantenimento disfunzionali delle manifestazioni di malessere psicologico.

Questo significa che gli psicofarmaci hanno un effetto limitato nel tempo, consistente nell’attenuazione e a volte nella completa remissione dei sintomi, ovvero le espressioni “segnale” di uno squilibrio che provoca sofferenza psicologica (fasi acute di sofferenza); i sintomi tuttavia ricompaiono in corrispondenza della sospensione del trattamento farmacologico, a volte in forme più gravi. Pensiamo alle benzodiazepine: il loro effetto è ridurre l’ansia al momento, infatti vengono prescritte come farmaci da assumere “al bisogno”, ovvero quando uno stato di malessere psicologico è soggettivamente percepito come intenso e insopportabile. Il problema è che la molecola non modifica il fatto che una persona sia portata a provare ansia, ma allevia tale vissuto per alcune ore, così che appena svanisce l’effetto del farmaco, la persona è potenzialmente nella identica predisposizione a provare ansia precedente all’assunzione del farmaco. Naturalmente è necessario tenere in considerazione gli effetti iatrogeni dovuti alla dipendenza connessi all’utilizzo di benzodiazepine, oltre che a possibili compromissioni neurofisiologiche causate dall’assunzione prolungata (Ashton, 1995).

Recenti rassegne sulla letteratura scientifica psichiatrica (Breggin, 2008; Migone, 2009; Carlat, 2010; Kirsch et al, 2008; Whitaker, 2010) evidenziano alcune questioni essenziali che mettono quantomeno in dubbio l’effettiva efficacia terapeutica della psicofarmacologia e la validità scientifica degli studi che dimostrano effettivi miglioramenti clinici delle condizioni di sofferenza psicologica trattate farmacologicamente. Questi lavori si riferiscono a dati scientificamente controllati nell’ottica della EBM (Evidence-Based Medicine), ovvero la medicina basata sugli studi clinici controllati randomizzati (RCT), che costituiscono il punto di riferimento clinico e scientifico della pratica medica.  Un RCT consiste nel paragonare i risultati terapeutici di un farmaco rispetto a quelli di un placebo per verificare l’efficacia del farmaco stesso con un unico criterio di valutazione (il placebo è una sostanza innocua identica al farmaco ma priva di efficacia terapeutica, il cui effetto è la serie di reazioni ad una terapia non dovuta ai principi attivi della terapia, bensì alle aspettative del soggetto).

Alcuni studi recenti su campioni di adulti, adolescenti e bambini (Kirsch et al, 2002, 2008; Whittington et al., 2004; Moncrieff & Hardy, 2007; Turner et al., 2008) hanno replicato le ricerche effettuate dalle case farmaceutiche sull’efficacia clinica dei farmaci antidepressivi (SSRI) rispetto all’effetto del placebo, ma prendendo in considerazione tutte le sperimentazioni cliniche condotte, sia quelle pubblicate sia quelle non pubblicate. I farmaci SSRI (inibitori selettivi del riassorbimento della serotonina)  rappresentano una delle categorie di farmaci fra le più vendute nella storia della medicina, e tuttora fra le più utilizzate nel trattamento del malessere psicologico (non solo per la depressione, ma anche per disturbi d’ansia e alimentari). Gli SSRI infatti comportano un minor rischio di dipendenza ed effetti collaterali meno evidenti rispetto ai precedenti antidepressivi triciclici, nonostante abbiano un’efficacia clinica simile. Dai dati riportati da questi studi, il miglioramento dei sintomi era interamente ascrivibile al placebo nella gran parte dei casi (Kirsch et al.,2002): solo il 10-20% dei pazienti depressi che migliorano lo fanno a causa dell’effetto del farmaco (ovvero l’80-90% sente solo l’effetto placebo). Sembra dunque che l’effetto dell’SSRI sia più che altro aumentare di poco l’efficacia dell’effetto placebo (Elkin e altri, 1989). inoltre emerse che più della metà (quasi il 60%) degli studi finanziati dalle case farmaceutiche per testare l’efficacia degli SSRI aveva riscontrato che l’effetto degli SSRI era uguale o inferiore all’effetto placebo, anche se gran parte di queste ricerche non furono mai pubblicate (Kirsch, 2011; Cheung, Emslie & Mayes, 2006). Una delle ricerche più prestigiose (Turner et al., 2008; Mayor, 2008) riscontrò che circa il 90% degli studi che dimostravano la non efficacia degli antidepressivi non erano stati pubblicati, o pubblicati in modo distorto: secondo la letteratura pubblicata il 94% degli studi sono positivi circa l’efficacia dei farmaci, mentre l’analisi dei dati su tutti gli studi effettuati (ossia che comprende anche gli studi non pubblicati) mostra che solo il 51% degli studi sono positivi. Bisogna in effetti considerare che quasi sempre sono le case farmaceutiche a finanziare le ricerche nonché le stesse riviste di psichiatria, in quanto i costi di finanziamento di entrambe sono molto elevati: se uno studio va contro gli interessi di chi permette la sussistenza di un’attività, è evidente il tipo di pressione economica e pubblicitaria esercitata sull’eventualità di pubblicare un risultato controproducente (Pignarre, 2010). Questi dati tuttavia costituiscono un invito alla prudenza nei confronti dei medici sulle conclusioni degli studi pubblicati (Migone, 2009).

Studi sull’efficacia degli SSRI a lungo termine (Hughes & Cohen, 2009), ovvero assunti per almeno 10 anni, evidenziarono che solo il 25% del campione manifestò miglioramenti significativi, numero inferiore rispetto alla percentuale dei pazienti che erano migliorati del gruppo che non aveva preso farmaci. Altre evidenze di questi studi sottolineano la possibilità che l’effetto degli SSRI, anche se scarsamente efficace nella maggioranza dei casi, possa aumentare per un ristretto numero di pazienti, per esempio con i soggetti gravemente depressi, ovvero un farmaco antidepressivo può essere più efficace con sintomi più gravi. Ancora, sembra che all’utilizzo del farmaco SSRI segua un numero maggiore di ricadute nello stato di malessere rispetto al numero di quelle di chi ha utilizzato il placebo. Comunque, il potente effetto placebo degli antidepressivi SSRI potrebbe essere dovuto alla grande suggestione legata all’imponente campagna pubblicitaria di cui questi composti hanno beneficiato. Per fare un paragone, i prodotti omeopatici, che sono notoriamente placebo e vengono utilizzati da molte persone, provocano solo l’80% circa del miglioramento che si ottiene con un farmaco; in effetti, i benefici dovuti alle terapie omeopatiche sono spesso dovute all’attenzione da parte dell’omeopata nei confronti dei vissuti emotivi dei suoi pazienti (Migone, 2009). Da questi studi, si potrebbe quindi concludere che gli SSRI siano efficaci soprattutto perché lasciano via libera all’effetto placebo, almeno nelle situazioni di sofferenza psicologica non connessa al Disturbo Depressivo Maggiore descritto dal DSM, ovvero nella grande maggioranza dei pazienti che si rivolgono al medico di base e in una buona porzione di coloro che vanno dallo psichiatra: questo avviene anche perché gli SSRI hanno il vantaggio di non provocare sgradevoli effetti collaterali (come nel caso di quelle sostanze dal forte potere suggestivo spesso indicate per giustificare la visita medica, come ad esempio i tonici o le vitamine ricostituenti), vengono utilizzati per curare moltissime forme di espressione della sofferenza psicologica, e godono di un potente credito mediatico che offre rassicurazione ed evoca un senso di affidabilità (Kirsch et al. 2008; Migone, 2009).

Per quanto concerne altri classi di psicofarmaci, è ormai assodato che gli antipsicotici, neurolettici e atipici, non si sono mai rivelati efficaci nella risoluzione di alcuni sintomi che caratterizzano il decorso di disturbi psicotici quali la schizofrenia, ad esempio l’isolamento e il ritiro sociale, lo scadimento lavorativo, la trascuratezza igienica e personale, l’inadeguatezza affettiva e la perdita di interessi ed iniziativa. Tali molecole infatti sono utilizzate nella gestione di sintomi quali deliri, allucinazioni e fenomeni dissociativi, ma nella comunità scientifica si è fatto largo il sospetto che predispongano ad una maggiore vulnerabilità biologica alla psicosi nel lungo periodo, e quindi la probabilità di ricadute, a causa dei forti tassi di riospedalizzazione emersi nelle ricerche longitudinali (Whitaker, 2004). Si pensi che alcuni ricercatori hanno addirittura proposto che gli effetti degli psicofarmaci siano indurre sindromi di alterazione degli stati mentali che tra le altre cose allevierebbero casualmente i sintomi. In altre parole, il fatto che un antipsicotico  provochi rallentamento 
cognitivo, apatia, appiattimento o 
indifferenza emotiva può ridurre nei pazienti psicotici 
l’intensità di deliri e allucinazioni; oppure il fatto che gli antidepressivi sopprimano l’esperienza e l’espressione delle emozioni potrebbe contribuire  a ridurre i vissuti depressivi (Moncrieff & Cohen, 2006). Un’altra evidenza scientifica rileva che nessun psicofarmaco ha mai dimostrato capacità terapeutiche risolutive o specifiche nel trattamento di disturbi alimentari quali obesità,  anoressia nervosa e bulimia nervosa, nonostante svariate molecole psicotrope siano largamente utilizzate nella terapia di queste forme di sofferenza psicologica.

 

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