Parto cesareo: aspetti psicologici

Inutile in questa sede discutere quali siano i motivi che hanno portato e tutt’ora portano molte strutture ospedaliere e molti relativi medici a preferire il parto cesareo: costi, immagine della struttura, deficit organizzativi e/o operativi.

Il fatto è che in Europa, l’Italia conta la più alta percentuale di cesarei (dall’11% di tagli cesarei nel 1980 si è passati al 38% nel 2008, nel resto d’Europa la maggioranza dei Paesi registra valori inferiori al 30% – dati divulgati dall’Istituto Superiore di Sanità).

Ciò che viene spesso messo in secondo piano, favorendo invece lunghe diatribe relative ai costi, alla sicurezza, e via discorrendo, sono gli aspetti psicologici coinvolti (o non coinvolti) nel parto con taglio cesareo (TC).

Facendo riferimento –ovviamente- alle sole situazioni in cui non sussistano, secondo autorevole parere medico, condizioni che impediscano o costituiscano validi e rischiosi ostacoli al parto naturale, è importante distinguere due “fronti”, ossia due differenti prospettive relative ai due principali attori coinvolti nel parto: la madre e il bambino.

I nove mesi circa di gestazione sono stati per la madre un momento di totale fusione con il nascituro, momenti talvolta caratterizzati da sofferenza non solo fisica, ma anche psicologica: ansie e preoccupazioni circa la salute del proprio figlio, circa la propria adeguatezza nel ruolo di madre, oltre a numerose fantasie e proiezioni sul bambino e sul futuro. Il parto, nella sua versione “naturale” è un momento cruciale, il momento decisivo di tutta la gestazione, il momento in cui si interrompe lo stato fusionale e simbiotico di cui sopra. La fine della gestazione è sancita dal più grande dei dolori che una donna possa provare. Proprio tale dolore e la fatiche che affronta una donna partoriente permettono un’efficace e ben delimitata separazione madre-bambino. Tramite il parto avviene quindi una separazione non solo fisica, ma anche psicologica che rende possibile la presa di consapevolezza dell’esistenza di un’identità nuova, esterna. Il neonato come individuo esterno dalla madre, in un certo senso “autonomo” nell’esercitare le prime funzioni del proprio essere (come il respirare), è una visione necessaria alla madre, la quale da quel momento in poi, vivrà il figlio non più come parte integrante di sé stessa, ma come una nuova identità nata da lei e dal suo compagno.

Con il parto cambia radicalmente quindi la posizione del bambino agli occhi della madre, primariamente nel senso fisico del termine (il bambino passa dall’interno all’esterno), ma anche in un’accezione più psicologica: il bambino cessa di essere fantasia e acquista un volto, diviene realtà e si concretizza nel mondo della madre. Diviene a tutti gli effetti un “pari” di tutte le altre persone, in primis della madre. Cambia anche, oltre alla sua collocazione mentale (dalla fantasia alla realtà), anche quella ambientale: dal grembo, passa al petto, da dove può esercitarsi quello che è il più importante e primario (nuovo) contatto con la madre: quello visivo.

Il parto, in sintesi, costituisce un cambiamento di stato importante, in cui i due aspetti –fisiologico e psicologico- si integrano a vicenda per rendere la separazione il più efficace e consapevole possibile.

Anche per il nascituro il parto è un momento traumatico, un cambiamento di stato qualitativamente significativo, ossia il passaggio da un ambiente caldo, accogliente, “ovattato”, intimo, ad un mondo rumoroso, freddo e –talvolta- molto luminoso. Il bambino viene al mondo piangendo, non solo per liberare i condotti respiratori, ma per il dolore e la sofferenza che ha provato e per il disagio che prova al suo arrivo nel “nuovo mondo”. Durante il parto naturale il bambino fatica ad uscire dal corpo materno, ma anche tale sofferenza è importante per lui per comprendere il netto cambiamento che sta avendo luogo. Da quel momento in poi non sarà più nutrito “automaticamente” tramite il cordone ombelicale, ma dovrà “richiedere” e cercare il cibo. Il pianto sarà il suo sistema comunicativo, lo stesso che ha messo in atto al momento della sua venuta, il pianto sarà il suo modo di comandare (almeno all’inizio della sua vita e per i primi mesi, fino a quando non imparerà l’uso della parola). Durante il parto naturale, inoltre, il passaggio dalla vita intrauterina al mondo esterno è –per certi versi- più graduale di quanto avviene in un parto cesareo, ciò è favorito dalle spinte della madre e costituisce gli ultimi momenti di contatto con il calore materno, fornendo quindi al nascituro un accompagnamento “meno brusco”, benché decisamente più doloroso.

Di qui si comprende come un parto “non naturale”, ossia tramite taglio cesareo, modifichi radicalmente alcuni aspetti, oltre che fisici anche e soprattutto psicologici. Una tale situazione pone la donna nel ruolo di paziente sottoposta ad un intervento chirurgico (patologizzazione del parto), in cui il dolore e la fatica del parto verranno del tutto meno, in cui la separazione è primariamente fisica, mentre l’aspetto psicologico viene spesso trascurato.

Nei casi in cui il taglio cesareo è ritenuto inevitabile (per complicazioni o condizioni mediche varie che lasciano ritenere un parto naturale altamente rischioso per l’incolumità della madre o del figlio o di entrambi) talvolta si può incorrere in fenomeni decisamente singolari per quanto concerne i vissuti emotivi della donna neo-mamma. Spesso infatti, donne che hanno partorito con taglio cesareo, riferiscono di sentirsi emarginate già all’interno della struttura ospedaliera presso la quale si sono recate per mettere al mondo il proprio bambino, un’emarginazione talvolta non verbalizzata ma comunque agita a livello non-verbale dalle altre madri e/o dal personale medico. Ciò favorisce ed incrementa il sentimento di “mamma a metà” che già di per sé tende spesso a presentarsi in alcune situazioni di cesareo, ossia la convinzione di non essere stata una vera madre, dato che non in grado di permettere un parto naturale.

In questi casi, ossia nelle situazioni in cui esiste nella madre la volontà di un parto naturale, ma ciò viene reso impossibile da condizioni mediche avverse, è ancora di maggiore importanza intervenire a livello psicologico al fine di permettere la realizzazione dell’importante processo di separazione di cui sopra, eliminando tutti quei pensieri disfunzionali di inadeguatezza e di inferiorità, affinché la donna ora divenuta madre possa dedicarsi al proprio figlio oltre che a sé stessa, scongiurando o comunque arginando eventuali episodi depressivi sempre più frequenti in seguito al parto.