Psicoterapia: tra Psicologia e Medicina.
La legislazione europea sembra orientata a promuovere in futuro un modello di regolamentazione della psicoterapia come una specializzazione delle professioni medicina e psicologia, come previsto dalla normativa italiana: essa si fonda sull’assunto che la psicologia sia una scienza e che la psicoterapia sia una applicazione clinica della psicologia e della medicina. Ovvero, mentre la psicologia dopo una tormentata lotta è riuscita ad affermarsi come una disciplina scientifica indipendente (almeno in apparenza) dalla medicina, la psicoterapia è stata infine concettualizzata come applicazione pratica della medicina e della psicologia, a sua volta appunto intrisa di aspetti legati al modello biomedico. Il fatto stesso che il titolo di psicoterapeuta sia concesso a Psichiatri e Neuropsichiatri (deroga dell’Art.3, Legge n.56/1989), le cui scuole di specializzazione non prevedono un’adeguata formazione in psicoterapia bensì una generica informazione su cosa sia la psicoterapia, costituisce un altro esempio dell’influenza e degli interessi della classe medica sulla professione di psicoterapeuta.
A questo proposito alcune associazioni europee di psicoterapeuti (tra cui European Association Of Psychotherapy – EAP, e European Federation for Psychotherapy – EFP) hanno sottolineato che molti tipi di psicoterapia non sono definibili professioni sanitarie in quanto si focalizzano sulla relazione umana e non su interventi di stile medico che stabiliscono esiti o promesse di cura. Questi tipi di psicoterapia non hanno lo scopo di rimuovere i sintomi ma quello di esplorare la vita umana, e non accettano una definizione di psicoterapia come una forma di trattamento, data per assodata invece per altri tipi di psicoterapia (Rapporto Maresfield, 2009, Regno Unito). In questo senso, la terapia non riguarderebbe la realizzazione di una procedura, e non permetterebbe di prevedere risultati in anticipo in quanto il percorso di ogni persona segue i suoi tempi e i suoi ritmi. Ovvero, la psicoterapia sarebbe una professione indipendente e libera, che prevede una formazione polivalente in vari aspetti delle scienze umane e sociali, tra cui aspetti teorici, esperienze pratiche sotto supervisione e un percorso di crescita personale (EAP; Dichiarazione di Strasburgo, 1990). Costituirebbe insomma l’applicazione pratica di una disciplina scientifica indipendente dal modello biomedico: spesso infatti termini appartenenti alla tradizione medica come diagnosi, trattamento e cura non riflettono ciò che avviene nella realtà quotidiana della pratica psicoterapeutica. Il concetto di cura stesso non sarebbe da intendersi come rimozione di sintomi, bensì come prendersi cura di sé, ovvero un progetto in cui il soggetto comprende se stesso e sceglie di vivere in maniera autentica, sottraendosi dai condizionamenti sociali e culturali.
Questo punto di vista porrebbe una distinzione tra alcuni modelli di psicoterapia e le professioni sanitarie. In questa prospettiva, le professioni sanitarie si occupano di sintomi, riguardano la patologia, vanno alla ricerca di cause fisiche, oggettive e storiche fondamentali, quindi cercano di curare un disturbo considerando la sofferenza psicologica come una malattia, un fatto obiettivo. Alcuni tipi di psicoterapia invece si occupano dell’intera vita mentale di una persona, riguardano le dinamiche psicologiche e studiano l’esperienza soggettiva, quindi cercano di esaminare i vissuti personali, inclusa l’idea di essere malato, considerando la sofferenza psicologica come una metafora o un’espressione della soggettività (Hyman, 1999). Secondo questa concezione, il malessere psicologico non è una deviazione anormale, disfunzionale o malata: invece rappresenta un’espressione specifica della vita emotiva, una manifestazione particolare dei tentativi di quella persona di adattarsi ad aspetti problematici della propria storia psicologica.
Lungi da noi prendere posizione in questo dibattito che prosegue da decenni, tra medici e psicologi da una parte, e tra diverse scuole di pensiero di psicoterapeuti dall’altra. Ci siamo limitati a riportare i dati di fatto da un punto di vista storico, legislativo, sanitario; tuttavia è doveroso fare alcune considerazioni rispetto alle differenze negli ambiti di intervento di psicologo, medico e psicoterapeuta.
Non è necessario essere psicoterapeuti per poter lavorare come psicologi: lo psicologo è una professione specifica e distinta da quella dello psicoterapeuta. Uno psicologo per poter lavorare deve essere iscritto all’Albo Professionale dell’Ordine degli Psicologi, e non per forza iscriversi ad una scuola di psicoterapia. Lo psicologo è tenuto a rispettare precisi vincoli deontologici e ambiti di intervento: egli non può effettuare psicoterapia, anche se può svolgere colloqui psicologici per il sostegno, l’invio, la motivazione di una persona che provi malessere psicologico o che si trovi in una fase di disagio per un problema specifico come una situazione critica o un periodo di vita particolarmente delicato. Di conseguenza, ragionando secondo i principi del modello biomedico, lo psicologo è proprio colui che si occupa di aspetti di “normalità” piuttosto che di “malattia”, a dispetto dell’opinione diffusa che dipinge lo psicologo come “medico dei matti”. Inoltre, lo psicologo si occupa di informazione, prevenzione e promozione del benessere in diversi ambiti oltre a quello clinico.
Indi per cui teoricamente lo psicologo ha una dignità professionale e un ambito lavorativo a sé stante; però da un punto di vista pratico o diventa psicoterapeuta o difficilmente può lavorare. Lo stesso psicoterapeuta si muove in un contesto sociale molto complicato, dominato da un modello biomedico della salute mentale, a livello di pregiudizi culturali, di sbocchi professionali e di politica sanitaria.
In ogni caso, sia lo psicologo sia lo psicoterapeuta non sono strettamente deputati a curare malattie, bensì ad aiutare una persona a risolvere i suoi problemi e a sviluppare le proprie risorse: psicologo e psicoterapeuta non sono finti medici, o psichiatri che non danno farmaci! La psicologia e la psicoterapia sono discipline utili a tutta la popolazione, e non solo a pochi individui, spesso pieni di imbarazzo e vergogna per aver preso la coraggiosa decisione di utilizzare un servizio per il proprio benessere. Inoltre alcuni medici tendono ad inviare allo psicologo solamente coloro che considerano rompiscatole o casi incurabili, mentre per altre persone decidono in modo indipendente come intervenire (spesso tramite farmacoterapia); in pratica molto frequentemente il medico si trova a dover decidere in modo autonomo come gestire problematiche che non sono di sua specifica competenza. Certo il medico di base in particolare si assume la responsabilità di valutare un’ enorme quantità e varietà di situazioni, che riguardano la domanda e i bisogni delle persone, dal punto di vista del malessere fisico e anche psicologico; lo studio del medico di base diviene pertanto il contenitore principale, e spesso unico, di richieste di aiuto di svariato tipo, di cui una buona percentuale è connessa ad aspetti di sofferenza psicologica. Tuttavia per il medico di base spesso è difficile identificare una manifestazione di sofferenza psicologica nella richiesta di una persona, a meno che non si esprima come franco sintomo psichiatrico o come conflitto nel rapporto con il medico stesso: nel contesto sanitario italiano spesso il medico di base è costretto a svolgere un compito che non gli compete, in quanto la sua formazione professionale è appunto da medico, non da psicologo! Di conseguenza l’invio ai professionisti della salute mentale spesso è affidato a quei medici di base “illuminati” e sensibili alle dinamiche psicologiche che intuiscono la necessità di un intervento non medico: ciò è in contraddizione con il fatto che tutte le persone dovrebbero essere seguite dallo psicologo, in quanto risorsa e servizio a disposizione di tutta la popolazione.
Partendo dal presupposto che sono assolutamente necessarie una regolamentazione, una formazione adeguata e una deontologia professionale, non è chiaro perché la professione di psicoterapeuta sia aperta anche ai medici, la cui formazione contempla quasi esclusivamente i principi del modello biomedico; né è chiaro perché le scuole di specializzazione in Psichiatria e Neuropsichiatria (deroga dell’Art.3, Legge n.56/1989) non considerino nel loro iter una formazione adeguata in psicoterapia, dal momento che danno accesso automaticamente al titolo di psicoterapeuta. In tal senso, il livello di formazione universitaria ideale e completo per chi si occupa di sofferenza psicologica dovrebbe comprendere delle conoscenze in psicologia dello sviluppo, psicologia sociale, psicologia clinica, neuroscienze, psicodiagnostica, psicopatologia, psichiatria, psicofarmacologia, interventi psicoterapeutici e un tirocinio pratico (Romano, 2008). Tutte o quasi queste discipline fanno parte in effetti del corso di studi in Psicologia, mentre il percorso universitario in Medicina e Chirurgia prevede solo poche di queste competenze (ovvero neuroscienze, psichiatria e psicofarmacologia). Appare evidente che una formazione adeguata in Psicoterapia si basi soprattutto sulle competenze che vengono insegnate nel percorso universitario della facoltà di Psicologia; in alternativa anche essendo laureati in Medicina sarebbe tuttavia necessario svolgere una Scuola di Specializzazione in Psicoterapia per sviluppare un’adeguata preparazione da psicoterapeuta, aspetto non contemplato dalla natura generica e approssimativa delle competenze in Psicoterapia previste dal piano di studi delle Scuole di Specializzazione in Psichiatria e in Neuropsichiatria.
EL articulo ofcere una buena orientacion a las personas que lamentablemente no esten disfrutanto de una relacion efectiva entre estos y sus terapeutas. Y es muy importante que se pueda discernir la razon de su incomodidad, pues podria muy bien ser como resultado de la problematica por la cual le motivo el buscar ayuda profesional y que para nada tiene que ver el terapeuta.Otro detalle que debemos tomar en cuenta es la voluntariedad de las personas en la cual si en algun momento la dinamica de las sesiones terapeuticas toma un giro que no le es de su interes el aceptarla y se les ingenie el buscar un chivo expiatorio para asi, evadir su responsabilidad o inherencia en el tema tratado. Usualmente ocurre mucho en los adolescentes y especificamente entre las feminas cuando se encuentran institucionalizadas o de alguna manera comparten una clinica en especifico. Esa manipulacion puede a lo mejor serle util, al paciente o a la participante, pero expone al profesional viciosamente a una posicion que no es la correcta o la verdadera; y en ello va la imagen profesional de este.Entendemos que el participante tiene sus derechos y sus deberes, pero ello no le da el derecho a faltar el respeto a ninguna persona. Y entiendo que el abandonar la sesion sin explicar el motivo de ello, no es saludable para ninguna de las partes. Debemos ser aserttivos en nuestra manera de proceder y un profesional de la conducta faltaria si le sugiriese a un paritcipante a que si lo desea no ofrezca explicacion alguna, al momento de tomar la decision de abandonar las sesiones con ese terapeuta. Nos reafimamos con la realidad que se observada en toda persona y es que todo el mundo es libre de actuar y de pensar como asi entienda, pero es igual de relevante que se le advierta sobre toda consecuencia que se recibiran independientemente de las acciones tomadas. Uno tendra derecho, pero ello no nos da el derecho de ser irrespetuoso con nadie.Es tiempo que le demos el lugar a los profesionales de la conducta, como asi se les extiende a los participantes.Solo sugiero respetuosamente que se considere el retornar a los valores morales que enfatizan la armonia y la buena convivencia entre unos y otros. En una relacion profesional, ambos merecen el respeto y la consideracion. Es el mismo principio de una relacion de pareja.Respetuosamente,Dr. Ivan E. Alvarez Acosta