Aiuto: mio figlio si mangia le unghie.
Molte mamme si preoccupano, allarmate principalmente da fattori igienici e di ortodonzia, dato che mangiarsi le unghie implica introdurre microbi e rischiare di rovinare lo smalto e l’assetto dei denti.
Cosa significa però se un bambino inizia a mangiarsi le unghie o le cosiddette “pellicine” e, soprattutto, come porvi rimedio?
Improvvisamente, apparentemente senza alcuna ragione, può capitare di notare il proprio figlio o figlia con le mani in bocca, intento a realizzare vere e proprie scarnificazioni. Il principale oggetto di interesse sono le unghie, ma spesso anche le cuticole, ossia quelle piccole pellicine che naturalmente o meno di sollevano intorno alle unghie, interesse che talvolta diviene sempre più insistente, portando anche a sanguinamenti.
Questo fenomeno si chiama “onicofagia”. Nome a parte ciò che è disarmante è che spesso è caratterizzato da un focus eccessivo sul comportamento in sé, ignorando talvolta in toto quelle che possono essere le cause scatenanti. Di qui il ricorso a rimedi che possono essere definiti come “palliativi”, primi fra tutti i vari smalti maleodoranti che avrebbero lo scopo di fare associare al bambino il ribrezzo provocato dallo smalto con l’attività onicofagica. Questo sistema in alcuni casi funziona, eliminando spesso completamente il gesto malsano del mangiarsi le unghie, ma quasi sempre non porta ad una risoluzione della problematica, quanto invece ad uno spostamento. Il condizionamento creato tra odore e unghie effettivamente riduce il gesto, ma porta in diversi casi a spostare l’attività “autodistruttiva” in altre zone del corpo, oppure ad adottare altre modalità: l’utilizzo delle mani al posto dei denti per perpetrare la “scarnificazione”, la focalizzazione sulle unghie e pelli dei piedi (soprattutto nei più piccoli), ecc.
Pertanto i rimedi più “rapidi” non sempre si rivelano come i più efficaci e questo perché si trascura (sempre più spesso) l’indagine e la ricerca delle motivazioni che possono stare dietro all’inizio dell’attività onicofagica, soffermandosi solo sul “fenomeno visibile”, il sintomo.
Cosa porta quindi un bambino a mangiarsi le unghie?
Ogni bambino, fin dalla nascita, è in grado di provare emozioni e, a seconda delle sue varie fasce d’età, ne impara –in maniera più o meno adattiva- la gestione. Quando ancora neonato le emozioni vengono gestite in primis dai genitori, i quali si fanno carico anche di questo. Con il passare del tempo, però, il bambino acquisisce sempre più “autonomia” ed inizia ad esperire il mondo più con i suoi occhi e sempre meno tramite una mediazione dei genitori. Alcune situazioni, però, non sono facilmente gestibili dal bambino e scatenano in lui emozioni difficilmente metabolizzabili. È il caso ad esempio della paura (ma anche della rabbia), che può verificarsi in varie situazioni (primo giorno di scuola, nascita di fratellini e/o sorelline, separazioni dei genitori, ecc.), un’emozione che non sanno come manifestare e, soprattutto, come interpretare e quindi gestire. In queste situazioni riportare le emozioni (qualcosa di impalpabile e ancora poco conosciuto) sul corpo è una strategia che spesso viene messa in atto. D’altronde è ciò che il bambino ha sempre fatto fin da piccolo per gestire i momenti di frustrazione: mettersi il classico “dito in bocca”. All’epoca tramite la suzione riusciva ad ottenere un conforto ma, una volta cresciuto, la suzione non appare sufficiente e allora il mordere, strappare e –talvolta- anche il provare dolore, è utile (ma non funzionale) a riportare qualcosa di ingestibile (poiché sconosciuto ed intangibile, come le emozioni), ad un livello più noto (quello fisico e tangibile, del corpo).
Eliminare il comportamento, in questo caso, può essere possibile solo nel momento in cui il bambino imparerà a gestire emozioni particolarmente spinose, proprio come la paura, la rabbia, ecc.
Come insegnare al bambino a gestire le emozioni?
Si chiama “educazione all’affettività” ed è una vera e propria educazione, nel senso più esplicito del termine. Ovviamente non si intende una spiegazione pura nei termini di una lezione, scolastica e razionale, dato che il bambino potrebbe non comprendere appieno un discorso che per forza di cose risulterà complesso (i bambini in età scolare non hanno ancora le abilità necessarie alla comprensione di concetti “astratti” come le emozioni). Il linguaggio che invece i bambini capiscono al meglio è quello degli esempi, soprattutto se tali esempi provengono da figure a loro vicine (quindi i genitori e gli altri adulti significativi). Interrompere il comportamento onicofagico con un esempio su come mamma e papà si sono sentiti nel provare ansia/ paura/ rabbia in quella determinata situazione d’esempio, costituisce un importante momento di educazione all’affettività. In questa circostanza il bambino imparerà che le emozioni anzitutto non sono negative, secondariamente che possono essere gestite (almeno come hanno fatto e fanno mamma e papà) senza per forza rifarsi sul corpo.
Inutile dire che, essendo l’esempio genitoriale un potente mezzo educativo (per il fenomeno dell’imitazione), è di fondamentale importanza che anche mamma e papà siano in grado di gestire le emozioni, ossia devono essere i primi ad avere una sufficiente educazione affettiva e, nel caso dell’onicofagia, devono essere i primi a non rosicchiarsi unghie e pellicine.
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Buona sera collega, sono un collega psicologo appunto, di Agrigento, le scrivo per farle i complimenti su quest’articolo, condivido sopratutto l’ultima parte, quella relativa all’importanza che ha per il bimbo il comportamento dei genitori al fine, attraverso l’imitazione, di imparare a gestire al meglio i propri vissuti. Personalmente da anni mi occupo di riabilitazione psichiatrica e post-operatoria ma qualche anno fà mi capitò di avere al mio studio una famiglia (papà mamma e figlio) con quest’ultimo accusato di alimentarsi in maniera poco ordinata visto l’eccessivo sovrappeso…ma sopratutto anche dei genitori. In quell’occasione riuscimmo a rieducare l’intera famiglia nell’adottare uno stile alimentare più sano…ma a partire appunto da mamma e papà. Le auguro un buon lavoro ribadendo i miei complimenti per il suo lavoro. Giovanni D’Angelo.
Buongiorno collega. La ringrazio della Sua testimonianza che, ancora una volta, sottolinea l’importanza del lavoro psicologico sull’intero nucleo familiare, soprattutto nel momento in cui ci troviamo a lavorare con “piccoli pazienti”.
Buon lavoro anche a Lei e a presto.
G.F.