Il silenzio.

Si spendono tante parole nella vita di tutti i giorni, come anche all’interno della situazione terapeutica. E proprio in questo ambito il silenzio a volte gioca un ruolo importante, talvolta sottostimato oppure nemmeno preso in considerazione. Alcuni sostengono che il contrario della comunicazione sia proprio il silenzio; in realtà anch’esso costituisce comunicazione. Vediamo di capire perché.

 

Nella vita di tutti i giorni il silenzio –magari improvviso- all’interno di una discussione porta le persone a provare disagio. Tant’è che in molti cercano di “riempire” questi apparenti vuoti nei modi più disparati: con battute, sorrisi e risatine, oppure con il classico colpo di tosse, giusto per “rompere” quell’angoscioso silenzio.

Lo stesso accade nella situazione terapeutica in cui, tra l’altro, la relazione e il dialogo è costituito da due sole persone (nel setting individuale). Molto spesso il silenzio è “iniziato” proprio dal terapeuta ed è tale fatto –a volte- a “sconvolgere” il paziente-cliente, secondo l’idea che essendo il terapeuta l’esperto nelle relazioni umane, almeno lui dovrebbe essere in grado di riempire ogni parte della comunicazione. Come può quindi proprio il terapeuta iniziare e tollerare tale assenza di comunicazione?

Ed è proprio qui che sta l’errore: anche il silenzio –a causa dei vari significati che può assumere- costituisce una importantissima fonte di informazione, oltre che una parte fondamentale della comunicazione. Vediamo quindi quali “funzioni” può avere il silenzio nel setting psicoterapico.

1. La funzione di ascolto.

Nella vita quotidiana, spesso frenetica e dai ritmi serrati, è spesso importante non dimenticare di dire nulla e di far fruttare al meglio i tempi, evitando quindi i silenzi –visti come banali e inutili perdite di tempo. In una comunicazione così incalzante –però- talvolta viene a mancare una componente importante: la capacità di ascoltare l’altro. Se non vi sono infatti momenti di pausa o di riflessione (come possono essere quelli favoriti dal sopraggiungere di un istante di silenzio), diviene difficile ascoltare e elaborare quanto percepito e, quando anche possibile, può comportare uno stress notevole.

All’interno di una psicoterapia il terapeuta invece ascolta il paziente e gli lascia tutto il tempo necessario a quest’ultimo per esporre i propri concetti, per arricchire i propri racconti o, semplicemente, per pensare.

Proprio il silenzio spesso dà al paziente la percezione di trovarsi in uno spazio e in un tempo a lui/ lei dedicato, uno spazio che si adatta alle sue esigenze e che è in grado di attendere. Sentirsi ascoltati a volte è qualcosa di talmente raro che il silenzio –quando assume la funzione di ascolto- appare inizialmente intollerabile e scatena il bisogno –da parte del paziente- di essere riempito al più presto. Anche qui queste e altre sensazioni variano in funzione del paziente e delle sue caratteristiche personali.

2. La funzione diagnostica.

In alcuni casi il silenzio è un momento necessario al terapeuta per avere il massimo della concentrazione e dell’ascolto (cosiddetto “attivo”) nei confronti del paziente e dei suoi racconti. Il terapeuta ascolta ogni singola parola e in ognuna di esse cerca di comprendere il processo di pensiero della persona che si trova davanti, quasi stesse formulando una sorta di diagnosi. In alcuni casi il terapeuta lascia totale carta bianca al paziente, delegando quindi la conduzione del colloquio per la maggior parte della sua durata, ritirandosi in un apparentemente ostinato silenzio (tuttavia necessario a svolgere un lavoro che sia efficace per il paziente).

3. La funzione terapeutica.

Tanti film ricreano (o mirano a farlo!) la situazione terapeutica, trasformandola in un “botta e risposta”, dando l’immagine della seduta dallo psicologo come di un incalzante scambio di battute. In altri casi il terapeuta viene rappresentato alla stregua di una sorta di “guru” detentore della sapienza e dei segreti più reconditi della mente umana, presso cui un paziente si rivolge, restando in attesa del proferimento del “verbo”.

In realtà lo psicologo non fa questo, ma in primis ascolta e lascia al paziente il suo spazio. È importante che la “soluzione” al/ai problema/i non provenga dallo psicologo –benché egli magari possa conoscerla, ma dal paziente stesso il quale, grazie al suo percorso, riesce a giungervi. Ovviamente tale percorso ha una lunghezza variabile (ognuno ha i suoi tempi) e, benché vi sia la tentazione di suggerire, di accelerare i tempi, ciò non porterebbe alcun miglioramento nel paziente. È quindi importante, proprio nell’ottica di fornire al paziente i suoi tempi, fare un passo indietro e porsi in “attesa”. In questo senso il silenzio diviene uno strumento utile, poiché “costringe” (in un certo senso) il paziente a prendere in mano le redini del lavoro terapeutico. Egli non è comunque abbandonato, ma supportato dal cosiddetto “ascolto attivo” del terapeuta il quale probabilmente osserva lunghi silenzi, che tuttavia non sono sterili, non costituiscono assenze, ma una presenza silenziosa. Tale assetto non solo permette al paziente di non sentirsi da solo (egli è infatti assistito da una persona esperta), ma nel momento in cui riuscirà a giungere alla “soluzione” sarà egli stesso l’autore del suo successo, elemento questo di fondamentale importanza per l’efficacia della terapia (e per l’auto-efficacia del paziente!).

 In sintesi quindi il silenzio a volte spaventa, ma la sua presenza diviene a volte fondamentale per il percorso terapeutico. Da quanto sopra esposto –inoltre- si comprende come in un’assenza di parola possa in realtà esserci un enorme quantitativo non solo di comunicazione, ma anche di lavoro. Come a dire “non si vede (ma soprattutto non si sente), eppure c’è (ed è indispensabile!)”.