Solo le donne possono essere felici.

Una ricerca scientifica dimostra l’esistenza di un gene specifico –già chiamato il “gene della felicità”- che tuttavia sarebbe presente solo nel gentil sesso, mentre gli uomini ne sarebbero sprovvisti.

I ricercatori della South Florida University hanno esaminato il DNA di 193 donne e 152 uomini ed hanno osservato un legame specifico tra un gene (MAOA) e le reazioni cerebrali alle sostanze chimiche connesse con gli stati d’animo positivi (dopamina e serotonina). Quindi, per sintetizzare, i ricercatori hanno scoperto un’associazione tra un gene e la percezione di stati d’animo quali l’allegria, la serenità e la felicità.

Tale associazione tuttavia, sarebbe stata riscontrata solo nel campione di donne, lasciando quindi dedurre che il “gene della felicità” sia una prerogativa femminile, mentre sarebbe del tutto assente negli uomini. La spiegazione che forniscono gli scienziati a questa ulteriore (e per altro per nulla insignificante) differenza di genere, riguarda l’interferenza che il testosterone eserciterebbe sulla manifestazione del gene MAOA. 

La conclusione –alquanto banale e per certi versi provocatoria ad essere sinceri- cui giungono gli scienziati americani appare allarmistica e fatalista: gli uomini non sarebbero in grado di provare felicità e, di conseguenza, alle donne rimane la rassegnazione di avere al proprio fianco solo maschi “tristi” o “infelici”.

Tale affermazione, benché utile nel creare una notizia che faccia discutere, appare alquanto esagerata nonché riduttiva: ancora una volta –dal punto di vista medico- il nostro destino appare essere scritto esclusivamente nei nostri geni. Così se sei uomo, quindi sprovvisto del “gene della felicità”, devi rassegnarti:  non potrai mai provare la felicità.

Oltremanica si potrebbe definire ciò un vero e proprio “Nonsense”, una posizione assolutamente non condivisibile, soprattutto nel momento in cui si comprende come l’essere umano (indipendentemente dal genere sessuale) sia non solo “materia biologica” (quindi un insieme di istruzioni contenuti nei geni che determinano il colore degli occhi, la statura, ecc.), ma anche e soprattutto dotato di raziocinio e capace di relazioni sociali. La rivoluzionaria (ed innovativa!) visione dell’essere umano quale “essere bio-psico-sociale” risale agli inizi del 1900 e sottolinea come l’uomo sia sì un essere biologico, dotato tuttavia di una mente pensante ed inserito in un contesto sociale in cui si relazione con altri simili.

Affermare quindi che un unico gene possa essere in grado di portare ad una manifestazione così specifica (come il non riuscire a provare la felicità), dove il concetto di felicità è a sua volta molto ampio, diviene puro “nonsense”. Analogamente sono stati identificati geni ritenuti responsabili di alcune (psico)patologie; contemporaneamente si è visto come soggetti portatori di tali gene non avessero in realtà mai manifestato la relativa sintomatologia. Si concluse quindi (e questa è una posizione decisamente più accettabile) che la presenza (o assenza) di una determinata configurazione genica (o genetica) può costituire una predisposizione a qualcosa; tale configurazione genica di per sé però non è in grado di elicitare la patologia (come nell’esempio del Disturbo Depressivo). La predisposizione aumenta certamente la probabilità di manifestazione della patologia, sarà tuttavia necessaria la concomitante presenza di altri fattori (ad esempio eventi scatenanti), affinché si possa assistere alla comparsa di sintomi specifici.

Analogamente quindi possiamo dedurre che effettivamente gli uomini siano sprovvisti del cosiddetto “gene della felicità”; ciò tuttavia non costituisce di per sé l’impossibilità per loro di poter essere felici. Per contro anche la presenza di tale gene nel gentil sesso non costituisce garanzia di felicità. Come a dire: “non è il gene a fare la felicità!”.

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