Una mamma per amica.
Un articolo uscito sul settimanale del New York Times “News & Features” un po’ di tempo fa ha creato parecchio scalpore in tutto il web, arrivando fino alle testate italiane come quella del corriere della sera (il suo blog online). Motivo del grande polverone mediatico? Una madre (Julie) e una figlia (Samantha) che dichiarano di avere una relazione di amicizia piuttosto che una di madre-figlia. Ma quanto –realmente- una mamma e una figlia possono essere prima di tutto amiche?
Samantha e Julie sono effettivamente –almeno dalla foto online sul sito del “News & Features”- molto simili e non si potrebbe faticare a credere che le due vengano spesso scambiate per sorelle. Complice anche l’abbigliamento giovanile, che riduce l’oggettiva distanza cronologica tra madre e figlia, rispettivamente 50 e 19.
Nell’articolo italiano, poi, viene menzionato il famoso telefilm “Una mamma per amica”, una sitcom americana in cui il rapporto tra madre e figlia è caratterizzato da una singolare complicità che pare azzerare i ruoli di genitore e figlia, in favore di un più paritetico “amiche”.
Ma quanto può essere “giusto” o auspicabile, questo è ciò che si domanda l’articolo del Corriere, che tra genitori e figli si azzeri quella che anni addietro era una significativa distanza (fino ad arrivare in periodi in cui i figli si rivolgevano al padre o alla madre dando del “voi”), in favore di un rapporto di pari livello?
In un rapporto amicale non vi sono infatti differenze di “livello”, al contrario un paritetico approccio all’altro, mentre tra un genitore e un figlio il primo è colui il quale è –in un certo senso- responsabile del secondo (almeno inizialmente), per poi rimanere comunque una guida, un punto di riferimento importante nel corso della vita. Un genitore quindi riveste un ruolo che –visivamente parlando- potremmo immaginare come posizione sovraordinata rispetto al figlio il quale da esso inizialmente dipende.
La questione viene quindi affrontata discutendo circa la “correttezza” del rapporto amicale rispetto alla più nota –e per certi versi “tradizionale”- relazione genitore-figlio. Anche in questo caso, come spesso accade e come di sovente si è sottolineato, si assumono come uniche alternative possibili due estremi che, per loro natura, sono a priori “sbagliati” (o disfunzionali).
Un rapporto tradizionale, quindi caratterizzato da un importante distacco tra le due figure attrici, è destinato ad essere manchevole sotto alcuni punti di vista; allo stesso modo un rapporto “alla pari” è altrettanto disfunzionale, poiché il genitore costituisce per il figlio un fondamentale punto di riferimento. Il genitore è colui che trasmette le regole della vita, che si pone come esempio per la prole, ruoli questi che difficilmente possono essere rivestiti da un amico soprattutto a fronte della mancanza di autorità che un amico o amica potrebbe avere agli occhi del giovane.
Le due posizioni, pertanto, sono ambedue “disfunzionali”. La soluzione in grado di coniugare al meglio questi due estremi è la consueta “via di mezzo”, una relazione genitore-figlio quindi caratterizzata dalla presenza di normatività e condivisione/ complicità, in un mix opportunamente bilanciato.
Per quanto invece riguarda l’altra questione sollevata nell’articolo del corriere, ossia il rischio che anche l’altro fronte –ossia i genitori- possa risultare compresso da una relazione paritetica, ad esempio facendo sì che la madre non riesca ad accettare la sua “vecchiaia”, questo è un altro argomento.
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