La scelta giusta. La scelta sbagliata.

Ognuno di noi –quasi costantemente nella propria vita- si trova di fronte a diversi bivi, in cui è necessario prendere una decisione. La domanda sia prima che dopo la decisione intrapresa è sempre la stessa: è la scelta giusta oppure quella sbagliata?

Il bivio è proprio l’immagine che meglio rappresenta la sensazione del dilemma dato dal prendere una decisione. Immaginando infatti di trovarsi ad una biforcazione da cui si dipartono due sentieri, le soluzioni possono essere tre: la via di destra, quella di sinistra oppure l’immobilità.

Può apparire superfluo, ma anche il “non prendere una decisione” e restare di fronte al bivio è una decisione, una scelta. Giusta? Sbagliata? Ecco che si ripropone la stessa domanda che compare nel dilemma tra sentiero di destra e quello di sinistra: dunque anche l’immobilità è un’opzione tanto quanto l’imbocco di una delle due direzioni.

Siamo costantemente quasi angosciati dal fare la scelta giusta (o di evitare una scelta sbagliata, a seconda delle prospettive), ma per quale motivo? E soprattutto cosa fa di una scelta l’essere “giusta” e –per contro- di un’altra scelta l’essere “sbagliata”? Con tutta probabilità la risposta a quest’ultimo quesito è data dall’esito che la scelta avrà per noi. Il bivio di destra sarà giusto? Probabilmente no se termina in un precipizio, oppure sì se ci porterà a casa. Tuttavia a livello del bivio o all’inizio del sentiero, non ci è dato sapere cosa ci aspetta alla fine ed è proprio questo che ci getta nello sconforto: l’imprevedibilità. Quasi si trattasse del lancio di una moneta: testa o croce? Difficile stabilirlo a priori e il margine di riuscita della previsione è del 50% – questa è imprevedibilità, poiché nulla propende maggiormente verso l’una o verso l’altra ipotesi.

Ma le scelte che prendiamo sono realmente così imprevedibili?

Se torniamo all’esempio del bivio ci rendiamo conto che le scelte possibili sono –come detto- tre e non due e l’esito di almeno una di queste è decisamente prevedibile. L’immobilità, ossia il non imboccare nessuna delle due direzioni del bivio, ha come logica conseguenza l’immobilità degli eventi: tutto resterà esattamente com’è, dato che nessun cambiamento di direzione è stato preso.

Per quanto riguarda le due altre alternative (sentiero destro vs. sentiero sinistro) è innegabile che la loro principale differenza rispetto all’immobilità è data dalla possibilità di cambiamento. Ciò significa che, indipendentemente dalla direzione che si intraprenderà, si otterrà comunque un cambiamento, si raggiungerà per forza di cose una situazione che si distinguerà dal “non-prendere-decisioni”. Certo, è possibile che uno dei due sentieri riporti al punto di partenza, ma comunque sia non si sarà rimasti immobili. Se quindi ci fermassimo a questo punto dell’analisi, riuscirebbe facilmente comprensibile come nessuna delle scelte sia realmente imprevedibile. Se infatti ci soffermiamo sul primo passo da compiere, evitando di fare una catena di ipotesi che possano dare vita a scenari diversi di cause-effetto determinate da una e dall’altra decisione (i cosiddetti “film”), le scelte sono decisamente prevedibili: immobilità = nessun cambiamento; una qualunque direzione = cambiamento. Nulla di imprevedibile.

Pertanto si potrebbe affermare che la prima domanda da porsi quando ci si trova difronte ad un bivio sia: “Voglio un cambiamento o preferisco che tutto rimanga così come è?”. Questo costituisce il passo fondamentale di ogni scelta, passo che spesso viene ignorato a favore di una decisamente imprevedibile domanda del tipo: “Sarà la scelta giusta o quella sbagliata?”.

Giusto o sbagliato vs. funzionale o disfunzionale?

Nella pratica professionale spesso il paziente si chiede (e chiede al terapeuta) se la scelta fatta sia giusta o sbagliata. La risposta è impossibile, poiché implicherebbe un giudizio su qualcosa di inesistente. La presa di una decisione infatti costituisce l’apertura di alcune possibilità e l’esclusione di altre (che probabilmente sarebbero invece state favorite dall’altra decisione, dall’altra direzione), ma non rappresenta una serie di certezze (fatta eccezione per il cambiamento). La decisione di cambiare lavoro, ad esempio, apre la possibilità al verificarsi di nuovi e sconosciuti (e molto spesso imprevedibili) eventi, come un nuovo capo (migliore o peggiore del precedente), nuovi colleghi, nuove possibilità di carriera, ecc., fattori che dovranno o potranno verificarsi, ma che a priori sono solo ipotetici; e stabilire se la scelta sia stata giusta in funzione di una grande quantità di sole ipotesi è un non-senso.

Pertanto –per ciò che concerne le scelte- è più utile parlare di “funzionale o disfunzionale”, sempre tenendo ben presente l’iniziale distinzione tra immobilità e cambiamento. Ogni scelta può apparire poi funzionale inizialmente (cambiare lavoro perché eccessivamente stressati dall’attuale occupazione), ma rivelarsi poi disfunzionale (non riuscire a trovare una nuova occupazione che sia gratificante): disfunzionale ma non sbagliata, poiché ogni decisione è un passo importante verso l’individuale progressione di ognuno di noi.

Unica considerazione possibile –quindi- è quella tra l’immobilità e il cambiamento. La prima appare certamente più rassicurante (un po’ secondo la massima “chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quel che lascia, ma non sa quel che trova”), ma senz’altro non porta ad alcun cambiamento migliorativo, al contrario restituisce spesso la sensazione di essere impotenti davanti agli eventi. Quando invece l’impotenza è autoindotta: si è scelto di non agire, di lasciare la situazione immutata, ma non si è veramente “vittima” degli eventi, solo si è deciso di non apportare alcun cambiamento.